Quando lo Stato uccide: ciao Generale Carlo Alberto dalla Chiesa

Il 3 settembre 1982, i Corleonesi di Riina e Provenzano uccidono Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo. Il Generale, che aveva combattuto il nazifascismo da partigiano e successivamente sconfitto le Brigate Rosse, si era reso conto della natura politica del fenomeno mafioso e del suo sistematico utilizzo da parte delle classi dirigenti, locali e nazionali, per governare sia il sottosviluppo civile e economico del Meridione sia l’economia illegale del Paese, quale serbatoio per il finanziamento illecito ai partiti e alle loro macchine clientelari.

Mentre il terrorismo brigatista aveva sfidato frontalmente lo Stato con l'esplicito disegno strategico di sovvertire l'ordine democratico (e le BR sono state un fenomeno tutt’altro che marginale nella temperie degli anni Settanta), le mafie erano (e sono) dentro il processo di organizzazione del potere pubblico, in tutti i suoi gangli vitali. La vicenda di Carlo Alberto dalla Chiesa è paradigmatica proprio per comprendere il nesso organico e identitario che esiste tra storia nazionale e genesi (e sviluppo) della questione mafiosa.

Il 10 agosto 1982, il Generale chiarisce, in una intervista a Repubblica realizzata da Giorgio Bocca, di essere venuto a Palermo per contrastare a viso aperto Cosa Nostra: “Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato”.

Carlo Alberto dalla Chiesa pretende chiarezza dallo Stato, mettendo in guardia dai rischi di sottovalutazione del problema mafioso e dalla sua localizzazione al solo territorio siciliano: “Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel ‘pascolo’ palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo. (…) Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi”.

E infatti gli sviluppi non furono positivi, non solo per il Generale che fu barbaramente assassinato a colpi di kalashnikov tre settimane dopo questa intervista. Le mafie continuarono a seminare morte con attentati eclatanti (Chinnici, Falcone e Borsellino) e ad accumulare immensi profitti, diventando vere proprie holding finanziarie a livello globale.

Le mafie italiane, in definitiva, lungi dal risolvere la loro storia nella mera narrazione di fatti criminali, da soggetto di relazioni con il potere istituzionale (celebre la battuta di Andreotti sulla sua mancata partecipazione al funerale di dalla Chiesa: “Preferisco andare ai battesimi”), sono diventate negli anni cultura della relazione politica ed economica, socialmente condivisa e legittimata dal consenso popolare ancor prima di quello delle classi dirigenti. La ‘società mafiogena’, con la sua prevaricante élite e le sue procedure di disarticolazione dei diritti sociali e di cittadinanza, rischia di diventare (ammesso che già non lo sia) il corpo maggioritario del Paese e della sua democrazia oligarchica (non soltanto in Italia).

Ciao Generale, ennesimo eroe-vittima di uno Stato che ha scelto il grigio come tonalità prevalente.

Dalla Chiesa, l'ultima intervista a Giorgio Bocca

10 agosto 1982

"Come combatto contro la mafia"
di GIORGIO BOCCA

PALERMO - La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro.

Dalla Chiesa è nero: "Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare".

Che arroganza generale?
"A un giornalista devo dirlo? uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo".

Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po' lasciata andare, un po'  leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?
"Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato".

Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve "coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale" la lotta alla Mafia.
"Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati".

Vediamo un po' generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.
"Preferirei l'esplicito".

Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?
"Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più".

No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?
"Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo".

Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?
"Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi".

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?
Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de "Il giorno della civetta". Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?
"Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi".

E oggi?
"Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E' finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?"

Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, si quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania?
"Si ".

E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E' vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?
"Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo".


IL CASO MATTARELLA

Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?
"E' accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato".

Mi spieghi meglio.
"Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco".

Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?
"Direi di si. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato".

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.
"Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa".

Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?
"E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali".

Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del "Giorno della civetta"?
"Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco".


"ERA MEGLIO L'ANTITERRORISMO"

Mi faccia un esempio.
"Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade".

Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.
"In un certo senso si, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell'Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia".

Perché sbaglia, generale?
"La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere".

E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?
"Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale".

Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?
Mi guarda incuriosito.

Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.
"Ma si, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

"Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è istigazione ad uccidere questa?" Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono? Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: "Eccellenza". 


 https://www.repubblica.it/cronaca/2012/09/03/news/dalla_chiesta_ultima_intervista_bocca-41889663/

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