Pier Paolo Pasolini: il Profeta del mio tempo

di Chantal Castiglione

Quarantadue anni fa, in una fredda mattina, viene ritrovato all’idroscalo di Ostia, morto, una maschera di sangue quasi irriconoscibile, il Profeta contemporaneo, sacrificato all’altare dei potenti, del fascismo moderno e bieco, del potere edonistico, perché portatore di verità. Come un nuovo “Cristo” laico che non muore più in croce ma in una periferia vicino al mare. Quella periferia che lui amava, che sentiva ancora vera e non falsata dal mondo circostante, ma che soprattutto dagli anni Settanta stava cambiano volto, imborghesendosi: ovvero ricalcando quegli orrori tipici della borghesia romana. Quel “Cristo” porta il nome di Pier Paolo Pasolini. Egli denuncia un nuovo fascismo, quello attuale, subdolo, che senza bisogno di coercizione si insinua nelle pieghe più profonde dell’animo umano, che rende sempre più omologati. «Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una mutazione della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la terminologia – una forma totale di fascismo. Ma questo potere ha anche omologato culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre…» (Scritti corsari)  Il potere che tutto avvolge e distorce. Il potere istituzionale criminale. Il potere che pur di riprodurre se stesso si macchia di innumerevoli genocidi.

Pasolini sa: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace. (…) Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana (…) Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia solo quando un uomo politico, non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento, deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa come me, ma su cui, a differenza di me, non può non avere prove, o almeno indizi» (Scritti corsari) Getta il suo anatema contro i potenti e il potere di allora così simile a quello attuale poiché c’è chi continua a soggiogare l’individuo, a renderlo una marionetta, una caricatura senza spessore, ad imbruttirlo e imbestialirlo, fino a renderlo un nulla nel mare mosso dall’indifferenza e dal conformismo esasperato.

In questo mio personalissimo amarcord di pensieri e istantanee una delle immagini che affiora alla mente è quella di Anna Magnani in “Mamma Roma”. Questo film, come anche Accattone che lo precede, può essere considerato come legato, anzi in stretta contiguità, con il cinema neorealista sviluppatosi in Italia nel secondo dopoguerra. Degno erede di film come: Roma città aperta di Rossellini, Ladri di biciclette di De Sica e tanti altri… Le scene, i personaggi, l’ambientazione, le denunce riportate nella narrazione, mi riportano a quel genere cinematografico. Una sorta di tardo neorealismo. Così come i neorealisti raccontano la società italiana durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, così Pasolini nei suoi film racconta una parte della società italiana, in questo caso romana, di un’Italia sottoproletaria che, dopo tante vessazioni, spera in un avvenire più prospero. Roma sogna e si batte per riscattarsi socialmente, dare una casa decente e un futuro migliore al figlio Ettore, futuro che, per lei, equivale ad una vita da piccolo-borghese. La protagonista altro non è che una prostituta; suggestive sono le scene in cui lei cammina sul viale avvolta dal buio. In quelle scene esplode tutta l’interiorità della protagonista, amare riflessioni di una vita vissuta ai margini. E poi c’è Ettore, il figlio di Roma, che non s’integrerà mai nel mondo piccolo-borghese sognato dalla madre, anzi nella famosa scena con la motocicletta afferma: «I signorini so’ tutti stupidi, nu i posso vede’, sti fiji de papà, perché c’hanno ‘n po’ de grana ‘n saccoccia se credono de esse’ quarcuno». Egli dopo aver scoperto il mestiere della mamma si dà ai furti. Durante uno di questi nell’ospedale verrà arrestato e morirà in carcere. Con Ettore muore il futuro, la speranza, la voglia di riscatto e di cambiamento, così come sono morti il futuro, la speranze, la voglia di riscatto e di cambiamento di molti italiani, scippati di tutto anche della propria vita. Per Mamma Roma non esiste un futuro, nessun riscatto sociale. Il film può essere visto come una metafora della società italiana, in cui la voglia di emancipazione non viene mai concretizzata effettivamente, in cui si rimane sempre schiacciati e repressi, in cui c’è chi decide per te e non puoi fare nulla per opporti (per Mamma Roma ci pensa Carmine), in cui ogni sussulto di cambiamento richiede una contropartita non affatto trascurabile, in cui, dopo un momento di pseudo libertà, ci si ritrova più schiavi e più sottomessi di prima e il futuro viene rinchiuso in carcere e lasciato morire in completa solitudine.

Fondamento delle sue opere, quindi, il riuscire ad effettuare un’analisi della società che non è solo quella del suo tempo ma i cui meccanismi governano anzi imperano sull’oggi. E il suo analizzare i fatti storici nel mentre questi si manifestavano: le Stragi, la corruzione, la distruzione del paesaggio e la degradazione dell’essere umano. Percorrere i suoi sentieri, la via maestra da seguire per chi vuole indagare, studiare, capire, cercare e se è necessario rincorrere la verità.

 L’Italia sta divenendo un Paese senza memoria rinnegando la propria storia, non volendola conoscere in profondità, ma accontentandosi delle versioni ufficiali tanto gradite al potere che tutto nasconde, tutto occulta e cancella. «Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è». (Scritti corsari)

Nel suo “Processare la Dc” (in Lettere luterane) del 28 agosto 1975 Pasolini scrive: «Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità sterminata di reati: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, collaborazione con la Cia, uso illegale di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di colpire gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass-media, corresponsabilità della stupidità delittuosa della televisione. Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro paese. E’ chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla».

Si ribella Pier Paolo e lo fa a viso aperto riportando nomi e cognomi, con le dita che tamburellano sulla macchina da scrivere, dietro una cinepresa. La sua: una denuncia contro i benpensanti, la cultura conservatrice che si scandalizza e si indigna per cose prive di senso e valore e non per le Stragi, i delitti più efferati, la condizione dell’individuo; che facilmente dimentica, in un paese mai divenuto sostanzialmente democratico. Pasolini non si asservisce mai ai dettami né del “nuovo potere edonistico dei consumi e dei media di massa” né a quello passato da lui definito “clerico-fascista” , non approva e non si uniforma mai alle sue leggi. Decide di essere libero. Ed è quel potere da lui denunciato in tutta la sua opera a sentenziarne la morte tragica.

Si consuma un altro dei tanti delitti delle lunghe notti dei misteri italiani. A morire è un intellettuale scomodo e inviso al “regime” italiano. Un filo unico nero attraversa quegli anni, connivenze oscure e note allo stesso tempo decidono le sorti degli italiani, chi deve morire, chi deve rimanere impunito. Un omicidio sul quale ancora, a distanza di quarant’anni di silenzi e depistaggi, bugie e demistificazione, aleggiano tanti interrogativi, dubbi incongruenze. Cosa si cela in realtà dietro la sua morte? Chi sono i veri mandanti e gli esecutori? A chi ha dato fastidio? Una risposta me la sono data. Io so chi ti ha ucciso. E voglio lanciare la mia condanna ideale. Ad ucciderti è stata l’Italia intera. Ad ucciderti è stato il “padrone” della verità ufficiale. Ad ucciderti è stato chi ti ha giudicato diverso. Ad ucciderti è stato chi ha voluto mantenere inalterato il controllo sulla società. Ad ucciderti è stato il mondo intellettuale che ti ha considerato solo un provocatore non cogliendo volutamente il tuo essere rivoluzionario. Ad ucciderti continua ad essere uno Stato che ti ricorda solo ora ma che avrebbe voluto tanto farti diventare un fantasma della memoria collettiva. Solo uccidendoti hanno pensato di poterti zittire. Ma la tua voce si sente inveire ancora contro il marciume sociale e la degradazione antropologica dell’uomo. Ti ritrovo giocare a calcio nelle periferie interiori dei ragazzi di vita. Non sei un’immagine sbiadita e ingiallita del passato, caro Pier Paolo, ti rivedo assieme ai ragazzi davanti al Ferrobedò, ad osservare le acque dell’Aniene, ti riscopro in alcune mie riflessioni e pensieri sparsi in libertà a dimostrazione del tuo essere sopravvissuto agli eventi di quella che De Andrè canta come una “Storia sbagliata”.

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